lunedì 24 marzo 2014

fuga da Alprazolam - a Cracco gli partiva un embolo.






Stati ansiosi/depressivi e grosse situazioni del cazzo sono un mix potenzialmente devastante.
Questa, oltre ad essere il succo di due anni buoni della facoltà di psicologia, era una cosa che Foco sapeva molto bene e che rappresentava la sua paura primaria.
La possibilità di un crollo nervoso era probabile e gli si stava annunciando a colpi di tachicardia.
Cercò di ignorare la cosa e si incamminò lungo la strada e la città, sperando che muoversi potesse aiutarlo nel ritrovare la lucidità necessaria per affrontare la situazione. I fatti dicevano che era a migliaia di chilometri da casa, senza soldi e senza un posto dove andare. Dopo un chilometro e mille pensieri, tutto gli suggeriva di trovare il modo più veloce di tornare in Italia, ma l'idea gli dava un fastidio terribile. Era conscio che questo sarebbe stato un ennesimo fallimento, un'altro timbro sul libretto della sua incapacità di affrontare la vita, un libretto con troppe pagine già marchiate.
Ad un certo punto, una lingua familiare  lo strappò dai suoi pensieri, facendogli drizzare le orecchie. Era una coppia che guardava le vetrine di un negozio di gemme. 

"Ciao, siete italiani?"
"Si, perché?"
"Oh meno male! Mi chiamo Foco, sono arrivato oggi ma mi hanno rubato tutti i soldi, potete aiutarmi?"
"E come? Scusa, ma vai alla polizia,no? Poi loro magari ti portano all'ambasciata e ti fai rimpatriare, che cazzo ne so."
"Di dove siete?"
"Lei è bulgara, io sono toscano."
"Io sono umbro. Ragazzi, dài, aiutatemi, pagatemi un posto per dormire stanotte e poi  rimando tutto una volta in Italia. Mi serve un po' per organizzarmi."
"Ma chi ti conosce? Poi dove stiamo noi è tutto pieno...poi, scusa, ma che vuoi? Sono problemi tuoi, noi siamo in vacanza, domani ci spostiamo...è un problema, non posso farti niente, dài. Buona fortuna."

Il ragazzo, un tipo sovrappeso con gli occhiali e la camicia hawaiana, prese la bionda sotto braccio e si voltò. Mentre si allontanavano a passo svelto, Foco ebbe l'impressione che la ragazza stesse litigando con il suo accompagnatore.
La delusione diede un'altra accelerata al suo battito cardiaco. Ormai non era più tachicardia quella che sentiva, ma una specie di ritmo house che dalla gabbia toracica lo percuoteva fino al cervello.
Per inerzia ricominciò a camminare. Sentiva che lo sconforto stava avendo il sopravvento e ,con la testa vuota e l'ansia arrivata a livelli di guardia, vagò per la città per un bel po' di tempo. Lo sguardo fisso in terra e i passi incerti lo portarono a scontrarsi con qualcuno.

"Hey, are you drunk?"

Foco alzò lo sguardo per scusarsi e si ritrovò davanti una ragazza bionda alta quanto lui.

"Sorry... no, no...i'm only swimming in a sea of shit."
"Ahahahaha, i think it's not a good sea for swimming, the ocean is certainly better than it!"

La risata di lei fu vagamente alleviante, in quel momento aveva bisogno di tutto tranne che di un vaffanculo. Per scusarsi, Foco, la invitò a bere qualcosa, visto che si erano scontrati davanti ad un chiosco di bibite e proprio mentre lei stava per ordinare, e si stupì non poco quando lei accettò ,apparentemente, con piacere.
La ragazza si chiamava Zdenka, nel suo inglese scolastico, almeno quanto quello di Foco, si presentò e gli raccontò che era di Praga e che stava facendo un viaggio da sola iniziato quasi un mese prima.
Era carina, anche se di tratti spigolosi, e se ne andava in giro scalza e vestita solo di una minuscola gonna e di un top. 
Foco, dal canto suo, gli raccontò,non senza imbarazzo, le sue disgrazie. Il fatto che lei fosse in viaggio tranquillamente da tutto quel tempo mentre invece lui era in mezzo ai casini dopo nemmeno ventiquattro ore, di certo non influiva positivamente sulla sua autostima e pensò che anche agli occhi di lei non potesse sembrare niente di troppo diverso da un coglione.
Mentre lui si raffigurava mentalmente come un abitante di scrotolandia, Zdenka, lo sosprese con un'idea: lei lo poteva ospitare nella sua stanza affittata in una guest house e lui poteva ripagarla dividendo il taxi a sua disposizione per qualche visita nell'isola.
Per essere sicuro di aver capito bene, Foco, si fece rispiegare il concetto almeno tre volte e quando finalmente gli fu chiaro, la abbracciò quasi in lacrime.
Il piano aveva solo un piccolo problema, lei sarebbe rimasta in Sri Lanka solo altri dieci giorni, tempistica che cozzava coi tempi di rientro di Foco, ma era decisamente un bel passo avanti.
Zdenka gli parlò anche di un ristorante gestito da italiani, cosa che  lo interessò molto , tanto da chiederle di portarcelo subito.
Aveva trovato un posto per dormire, ma a quel punto doveva pensare anche a mantenersi e forse stavolta avrebbe trovato un po' di solidarietà patriottica. O, almeno, così sperava.
Lo " Spaghetti" era un ristorante all'aperto situato dalla parte della strada verso l'entroterra. Un giardino di terra battuta con palme e alberi, protetto da un muro di cinta in pietra, che ospitava una decina di tavoli abbastanza capienti da contenere una sessantina di coperti. I padroni dell'esercizio erano una coppia di romani, Paolo e Fabiola. 
Foco si presentò e raccontò la sua situazione.

"Ci dispiace, ma siamo al completo, qui da noi lavorano tutti cingalesi. Abbiamo un ragazzo giapponese che ci fa il sushi e al momento non ci serve nessuno. Però, dài, facciamo una cosa, vieni quando vuoi e mangi gratis. Basta che vieni prima che apriamo, però, che i tavoli sono quasi sempre pieni qui da noi.
Anzi, facciamolo da subito, che sono quasi le sette, che vi faccio portare?"

"Boh...una carbonara?"

Dieci minuti dopo, un ragazzo del posto, secco come uno stecco, si presentò con due piatti contenenti un ammasso di spaghetti incollati che nuotavano in un liquido giallastro con occasionali pezzi di quella che dovrebbe essere stata pancetta.
Il primo boccone fu sufficiente al palato di Foco per giudicare il piatto una vera cacata. 
 
"I love italian cooking!"
"A Zdé, ma che merda te magni de solito?"
"What?"
"Nothing..."

"Paolo, ma chi cucina?"
"I cingalesi, perché?"
"Voi avete cenato?"
"No, non ancora... ma che voi fa?"
"Niente, vorrei ringraziarvi per l'ospitalità facendovi un piatto di pasta. Dov'é la cucina?"
"Là in fondo...ma lascia perdere, non serve...poi..."
"È un piacere, tranquillo."

Senza lasciargli il tempo di dire altro, Foco si fiondò in cucina. Con grande sorpresa la trovò molto ben arredata e con tutto il necessario per cucinare. Aprì il frigo e ci trovò almeno due chili di pasta già cotta. Evidentemente ,ad ogni ordine ,veniva preso un ciuffo di pasta precotta che poi veniva ripassata in padella. Tra gli sguardi sorpresi dei cingalesi che lavoravano lì, Foco, accese il grosso bollitore della cucina a gas e si mise a cercare negli scaffali. Tirò fuori un chilo di spaghetti marca "Marco Polo", pepe, un formaggio stagionato che poteva assomigliare a parmigiano e dal frigo prese delle uova.
Non sperava di avere a disposizione del guanciale, ma non fu neanche deluso dalla pancetta trovata. Mentre sbatteva le uova, si accorse di essere osservato da un giapponese alto, magro e coi capelli tinti rosso fuoco.

"Hi, who are you?"
"The lord of pastasciutta, ciao bello."

Mentre buttava la pasta nell'acqua bollente, ignorò le proteste di un cingalese col cappello da cuoco che evidentemente bestemmiava indicando la pasta già cotta nel frigo aperto.
Pochi minuti dopo, lo zittì infilandogli in bocca una forchettata di pasta pronta, ricevendo in cambio un dondolamento di testa di assenso.

Foco uscì dalla cucina con sei piatti di pasta fumante in mano che apparecchiò al tavolo dei padroni del posto. Poi tornò al suo tavolo con due porzioni per lui e per Zdenka, che nel frattempo non aveva capito niente di quello che era successo.
Dieci minuti dopo, Paolo, venne a sedersi al suo tavolo con tre birre in mano.

"Certo che la faccia come il culo non ti manca, eh?"
"Diciamo che non mi mancano le motivazioni,oggi."
"Sai fare solo la carbonara?"
"È quella che mi viene peggio."
"Allora, da domani lavori per me. Oh, ti pago quello che pago ai cingalesi, quattro, cinque euro al giorno, che qui sono un ottimo stipendio. Tu, però, gli insegni a cucinare, in modo che ,se poi te ne vai, non è che rifanno quella pasta de merda. Qui ci vengono parecchi tedeschi e fino ad oggi m'andava bene, che tanto quelli sanno un cazzo, ma non vorrei che poi arriva un altro italiano stronzo come te e mi sputtana in Italia."
"Andata, ti ringrazio, cercherò di non fartene pentire."
"Speriamo. Col bar come sei messo? Coi cocktail?"
"Frequento i primi e faccio parecchio uso dei secondi."
"Allora, se vuoi arrotondare, ti faccio conoscere dei ragazzi che gestiscono un chioschetto sulla spiaggia, magari ci tiri fuori i soldi per le sigarette, quando stacchi da qui."
"Fammeli conoscere, fumo parecchio."

Ce lo portò Poddy, una specie di maître del ristorante. Poddy era iracheno, raccontò di essere scappato subito dopo la guerra del golfo e che aveva girato parecchio prima di stabilirsi in Sri Lanka. Sembrava un tipo simpatico e, da come guardava Zdenka, molto felice di non avere mogli a casa.
Il chiosco, o bar, come lo chiamavano i proprietari, era veramente sulla spiaggia, a pochi metri dall'oceano ed era poco più di un gazebo circolare di tronchi con un bancone di legno ed un tetto di foglie di palma. I proprietari erano giovani cingalesi coi capelli rasta poco più che adolescenti ,con il mito di Bob Marley ,che ,da due enormi casse ,facevano risuonare musica reggae dal tardo pomeriggio alle prime ore del mattino. Una cosa positiva era che si trovava a non più di trenta metri dalla guest house dove alloggiava Zdenka, che infatti conosceva già i giovani appassionati di cannabinoidi. Il posto, nonostante non fosse chissà cosa, era molto frequentato, soprattutto da giovani turisti, e il volume d'affari sembrava confermare il bisogno di un aiuto lavorativo. Senza troppe chiacchiere, i giovanotti invitarono Foco a darsi subito da fare. Raccolti gli ordini, mentre miscelava una tonica con vodka fabbricata in India, con l'oceano che restituiva l'immagine increspata di una luna quasi piena, Foco, ebbe la sensazione che il suo viaggio fosse appena iniziato.



domenica 2 marzo 2014

Elvis è morto, Hendrix è morto e anche io non mi sento tanto bene



Credo ci sia una sensazione che accomuna tutti quelli che, come me, hanno scelto di assecondare la propria passione per la musica spingendosi fino all'esibirsi in pubblico.
È una sensazione che nasce quando, al termine di un'esibizione in cui hai messo tutto il tuo bagaglio di energia, conoscenze, esibizionismo e passione, lanci il tuo "GRAZIEEEEEEEEEEEE" pieno di aspettative e scopri che non segue un cazzo per cui ringraziare. 
Silenzio.
O, al massimo, il brusio di discussioni che non si sono interrotte mai, neanche a causa del volume alto.
Tu stavi dimostrando a tutti che il demone del Rock si era manifestato lì e che probabilmente stava indossando le tue mutande e non se ne è accorto nessuno.
Feedback tendente allo zero per cento.
Qualcuno che alza al massimo lo sguardo e sembra stupito di vederti ,nonostante, fino a dieci secondi prima, tu gli abbia urlato nelle orecchie dimenandoti ,più o meno ,a tempo a due metri dal suo tavolo.
È una sensazione che prescinde dalla grandezza del posto o dell'evento e che fa sempre lo stesso effetto dal vago retrogusto di pupù. 
Per fare un esempio a chi non ha mai avuto a che fare con un microfono o con un palco: è come se dopo una prestazione sessuale che giudichi entrata di diritto nelle tua top ten, appena aver fatto mentalmente i complimenti al tuo armamentario riproduttivo, scopri che il tuo partner ha ,per tutto il tempo, seguito la puntata di " Distretto di polizia 8". 
Che magari poi era pure una replica.
Insomma, sono momenti del cazzo per le tue sicurezze.
Sei lì, sudato per l'emozione, l'adrenalina e le luci e davanti hai un muro d'indifferenza su cui si sono appena schiantate buona parte delle tue velleità artistiche.
Credetemi, svegliarsi nudi sul divano in mezzo ai tuoi parenti appena entrati in casa è meno imbarazzante ( tratto da una storia vera n.d.s.).
L'indifferenza è destabilizzante. 
Soprattutto se sai che hai dato il tuo massimo.
Perché ad un ritorno negativo sei preparato, rientra nel gioco e hai già una cartucciera piena di spiegazioni per quello.
Puoi buttarla sul fatto che la gente non capisce niente di musica, che sono solo il solito manipolo di ignoranti che non può apprezzare del buon rock per mancanza di basi e che magari vota pure Berlusconi.
Te la puoi prendere con l'acustica del locale, con l'impianto da pochi euro che non garantisce la fedeltà del suono, col fatto che c'era la Champions in televisione e, ma solo se sei composto al settanta per cento di acqua e al trenta di merda, con i componenti della band che sicuramente hanno suonato da schifo.
Insomma, per le critiche ti sei già premunito dei giusti vaccini fatti in casa.
Ma contro l'indifferenza hai meno anticorpi  di uno svizzero che beve ad una fontanella di Calcutta.
Quando non c'è risposta l'esibizionismo diventa un boomerang che ti ritorna in pieno sui denti ed il tuo bisogno di approvazione lascia lo status di "momentanea debolezza" per passare a quello di "angosciosa urgenza".
Sono secondi, forse minuti, ma in quel breve lasso di tempo riesci a pensare molto.
La prima cosa su cui rifletti  è come poter scappare a casa senza dare troppo nell'occhio, magari simulando un malore o premendo un pulsante dell'antincendio che è sempre troppo lontano.
Una volta , ricordo, m'incantai in una  rivalutazione mentale riguardante l'utilità delle bombe fumogene dei Ninja, quelle che le lanci in terra e - PUFF - coltre di fumo a coprire la fuga.
Pensi a come cazzo sei finito lì, tu che prima di cantare sotto la doccia facevi il giro della casa per assicurarti che non ci fosse nessuno. 
Tu che eri talmente timido che per farti fare la foto di scuola alle elementari, te la dovevano scattare a tradimento, come i reporter del National Geographic col rarissimo esemplare di marsupiale di turno.

Foco - Classe Terza b - Scuola elementare "Johnny Walker"

Cerchi di ricordarti il motivo che ti ha spinto a voler salire su un palco, denudarti così di fronte alla gente (figurativamente, quelle sono cose che faccio solo dopo certi capodanni) e di trovare quello per continuare a farlo per le seguenti due ore.
Sono momenti di ricerca interiore, di interrogativi del tipo: "Chi sono? Cosa faccio? L'invisibilità è un superpotere che ho in dotazione?".
Intanto  l'entusiasmo che prima della serata viaggiava al livello "mega erezione", adesso fatica ad arrivare a quello " barzottismo post-bidet".
Come si supera tutto questo e si va avanti?
Succede quasi sempre in maniera automatica.
Ormai sei lì e, non potendo dare fuoco al locale o picchiare tutti con la strato del chitarrista, passi al pezzo successivo.
Nel mio caso alternando le strofe a delle grosse sorsate di liquido fortemente alcoolico, che non influisce sull'autostima, magari, ma fa alle mie inibizioni quello che Rocco fa di solito alle giovani attricette ungheresi.
Segui la scaletta, ti senti molto meno "artista" e aspetti che l'ansia venga sodomizzata dal rum.
Per certi versi ritrovi, una volta eliminato il problema "pubblico",anche il gusto di suonare tanto per farlo.
E se poi, mentre lo fai, scorgi, in mezzo alla folla noncurante, una testa che si muove a tempo con la parte ritmica, ti concentri su quella, provando a regalare al suo possessore il meglio che sai fare. 
In cambio, il fortunato, sarà costretto a sorbirsi un dettagliato interrogatorio forzato sulle sue impressioni riguardo la serata.
Alla fine quella brutta sensazione non c'è più. 
L'hai spazzata via con la voglia di suonare comunque e una sapiente variazione del tuo tasso alcolemico.
Anche se poi sai che ricomparirà prima o poi, aspettandoti davanti ad un microfono per il solito braccio di ferro con quella che è la tua passione più vera.